Abbiamo incontrato Claudio Agazzi, CEO e Founder di RetailTune, società specializzata nel mettere in contatto/dialogo un potenziale cliente con un punto vendita locale di un determinato brand.
Fashiontimes.it
Quanto è difficile fare capire il plus del vostro lavoro?
Oggi, nel 2020, con RetailTune inizio a vedere una reazione più attenta da parte delle aziende. Vedo un impegno delle aziende a voler comprendere meglio questi aspetti; in passato c’era poca propensione a voler capire, cosa che invece oggi riscontro maggiormente. Ci sono aziende che creano tavoli di lavoro appositamente per discutere certe tematiche legate alle performance, ma questo succede solo quando c’è volontà da parte dell’azienda ad affrontare l’argomento.
Come nasce l’idea di creare questi servizi?
Tutto è nato per un motivo semplice: in qualità di advisor digitale stavo lavorando per un’azienda del fashion con oltre 200 store diretti e lì, facendo anche temporary management, mi sono reso conto di come tutto quel mondo definito omnicanale, in realtà avesse significati molto diversi. Mi sono reso conto di quanto poco le aziende stessero lavorando per portare questa massa enorme di persone che approcciano al web, dal digitale dentro al punto vendita fisico. Passata la prima fase del sito corporate, l’e-commerce ha preso il sopravvento e le aziende hanno visto la crescita di questi store online in termini di fatturati e si sono fatte prendere un po’ la mano, confondendo spesso la funzione del digital director con quella di e-commerce manager. È vero anche che tutto quello che non è vendita online viene un po’ messo in secondo piano, ma c’è anche da dire che sono ancora molte le persone che vanno sul sito, prendono le informazioni online per poi comprare nello store fisico.
Qual è il passaggio che porta la persona dal prendere le informazioni online al comprare poi offline?
Nel nostro percorso abbiamo coniato diversi nuovi modi di raccontare le cose e uno di questi è il CRM mobile o fluido: le aziende si concentrano molto sul CRM inteso come database e nel mondo del fashion spediscono al pubblico mediamente un centinaio di newsletters ogni 2 anni. I dati ci dicono che in 2 anni, il cliente del fashion, nel 70% dei casi compra una sola volta, quindi un accanimento di informazione per ottenere un cliente che compra una sola volta, dimenticandosi di tutte le persone che di propria iniziativa cercano l’azienda andando direttamente sul sito perché interessati al brand e al prodotto, è controproducente. Nel 70% dei casi, il cliente che sceglie di navigare su un sito rilascia anche la propria posizione, fornendo alle aziende infomazioni molto utili. A questo punto siamo noi a dover essere bravi a mettere in relazione lo store fisico più vicino al cliente che ha cercato il brand. Questo non solo nel mondo retail o franchising, ma anche nel mondo del wholesale, che in molti casi copre una grande fetta di fatturato. Occorre unire la forza del brand con le informazioni del punto vendita fisico più vicino, magari dando l’informazione aggiuntiva legata alla reale presenza di uno specifico prodotto in uno store piuttosto che in un altro.
Cosa pensi del progetto che sta lanciando AliBaba di creare un’e-commerce unicamente veicolato dai dati estrapolati dai big data?
Anche di big data si parla da molto tempo. Penso che i dati vadano utilizzati in maniera solida; di big data ne abbiamo a profusione e a volte non servono neanche tutti. Noi lavoriamo su diversi dati, ad esempio quella della consideration performance rate: stiamo misurando, grazie ai dati che ci passa il web, e che ci passano altre strutture tecnologiche che ci forniscono un’altra parte di dati, quello che potremmo definire come la brand awareness locale, ovvero quanto il brand è conosciuto negozio per negozio, inteso come monomarca, franchising e multimarca. In questo modo riusciamo a dirti qual è il tasso di penetrazione della brand awareness negozio per negozio e conoscendo questo dato l’azienda può lavorare su dei correttivi. Altro esempio di big data sta nel fatto che noi conosciamo cosa il pubblico locale ama di più di quel brand ed è il tasso di distribuzione del prodotto, un dato molto parlante che ci dice se è stato fatto un buon buying da parte dell’azienda e una conseguente buona distribuzione nei diversi negozi locali, perché lo stesso prodotto può vendere bene in una città piuttosto che in un’altra e quindi avere questo tipo di conoscenza aiuta molto.
Cosa ne pensi e come si può secondo te mettere insieme la comunicazione e un progetto social con quanto ci hai spiegato fino adesso?
I dati forniti in modo disaggregato non aiutano chi deve analizzarli. Noi siamo abituati a lavorare con dati molto chiari. Il tema dei big data e dell’analisi del dato fruibile (quindi che sia azionabile) per portare a una performance positiva, ha una chiave di lettura molto semplice per come andarlo a mostrare: semplicità e sommarietà. Quando parlavo di consideration performance rate parlo del punto di arrivo di 3 anni di percorso, in cui ci siamo chiesti come poter misurare dati negozio per negozio, sempre a livello locale, perché oggi tutti ci siamo dimenticati che vendiamo quasi sempre a livello locale (ovviamente è escluso l’e-commerce da questo discorso) e questi dati ci permettono di conoscere e analizzare le situazioni attuali. Se c’è un po’ di solidità nella gestione del dato allora il dato funziona! Preferiamo avere un dato più semplice, se vogliamo più rozzo, ma solido, in grado di dare delle indicazioni.
Perché se le aziende hanno questi strumenti spendono centinaia di migliaia di euro in influencer che sono attività temporary?
Perché le aziende si devono preoccupare di cose che sono “difficili” da capire e magari meno conosciute, quando tutti ormai parlano di influencer marketing? Non dico che l’influencer marketing non vada bene, ma stiamo parlando di due cose completamente diverse. A mio parere molto è dettato dalla consuetudine. Noi produciamo dati anche di performance e risultati a volte stupefacenti e spesso questi dati, quando vengono raccontati, non sortiscono l’effetto che dovrebbero, perché probabilmente si fa fatica a capirne il concetto o il volume reale. Le aziende fanno ancora molta fatica a rendere fisico il numero che deriva da questi dati; è una questione di cultura e di voglia di fermarsi un attimo a capire cosa realmente serve.
Parliamo di futuro. Immaginiamo un futuro in cui oggi cerco un prodotto su Google e domani lo chiedo ad Alexa o Google Home. Come cambia la strategia? Come vi state preparando a questo mercato in cui non si digiterà più sulla tastiera, ma si passerà a un comando vocale?
Diciamo che vocale o a tastiera, stiamo sempre parlando di un motore di ricerca. Il meccanismo è lo stesso, ma è molto interessante il concetto di product finder, ovvero, dove trovo un determinato prodotto? Per poter rispondere a questa domanda occorre che qualcuno abbia fornito a Google, quali store in questo momento hanno il prodotto che cerco. Se le aziende non lo dicono, il Google della situazione non lo saprà e non lo comunicherà mai al cliente. Stiamo studiando Google e abbiamo appurato che fornendo dati di qualità, riusciamo a posizionare nei primi posti con i nostri brand, e questo è possibile perché abbiamo fornito tutti i dati utili. Il nostro progetto attuale porterà ad avere un product finder.
Qual è l’errore che fanno più spesso i vostri clienti?
L’accortezza nell’analizzare i dati è l’errore più grande che le aziende fanno. Quasi sempre non hanno in organico un analyst, anche perché è una figura davvero difficile da trovare. Il secondo errore è quello di non aver strutturato una risposta veloce alle novità e alle opportunità. È necessario che le aziende possano contare su strutture snelle che sappiano reagire con immediatezza. Spesso poi capita che le aziende non abbiano gli strumenti per reagire al meglio. In sostanza le aziende devono essere pronte! Nel mondo digitale andrebbero consolidate le conoscenze che già abbiamo.
Si parla tanto della tecnologia blockchain. Come può aiutare le aziende a dare valore e a certificare questi dati?
Sinceramente faccio un po’ fatica a decifrare questi dati. Non in tutte le industry ci sono le stesse caratteristiche e non per tutti va bene lo stesso modello, ma dobbiamo avere la mente molto lucida nel capire come usare questi dati. Non c’è nulla di nuovo nella tecnologia di oggi che non ci fosse già nell’800. Dobbiamo essere bravi ad usare i dati e a collegarli fra loro, partendo dal presupposto che dall’altra parte abbiamo un utente che vogliamo trattare con cura. È cambiato il mezzo, ma noi tutti dobbiamo cercare di essere solidi nelle cose che facciamo.
Qual è dunque il segreto per vendere di più online e offline?
Curare l’informazione. Quando un sito è lento, non funziona, è come chiudere la porta in faccia al cliente. Cosa si potrebbe fare, che non si fa? Ti faccio un esempio: abbiamo misurato, attraverso un sistema di call tracking, il tasso di risposta delle telefonate nei negozi e il risultato è che in media il 30% delle telefonate in store non ricevono risposta; questo significa che le aziende spendono molto per avere un brand, per realizzare un catalogo per mostrare un prodotto, riuscendo a comunicare la presenza del negozio in un determinato punto geografico e al 30% delle telefonate dei clienti non c’è nessuno che risponde: il 15% di queste persone che non ricevono risposta chiamano un altro brand.
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